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Promuovere la narrazione di sé nelle professioni di cura

1 – Il compito di questo contributo consiste nell’indicare alcune linee di approfondimento sulla importanza di praticare la narrazione autobiografica

di Carmine Lazzarini*

Onorare le storie dei pazienti...
Grazie alle competenze narrative,
adoperiamo il Sé alla stregua di uno strumento terapeutico,
basandoci non solo sulle conoscenze biomediche,
ma anche sull’immaginazione, il rispetto per il coraggio,
la consapevolezza per la fragilità,
la disponibilità a perdonare ed essere perdonati…

 (Rita Charon)

l’unico modo per “conoscere” se stessi e gli altri
è impegnarci nel mondo in quanto esseri che si muovono,
agiscono e patiscono nel tempo,
scoprendo così significati e profili della realtà
che dipendono dall’esistenza degli altri.

 (Laura Boella)

 

1 – Il compito di questo contributo consiste nell’indicare alcune linee di approfondimento sulla importanza di praticare la narrazione autobiografica in ambienti, strutture, istituzioni socio-assistenziali, socio-sanitarie, educative in senso lato, coinvolgendo operatori della cura, personale sanitario, educatori, animatori, volontari, famigliari, care giver.

Si tratta di mettere a fuoco le valenze positive della messa in cantiere di laboratori di scrittura autobiografica, sia per i singoli soggetti che, al di là dei molteplici ruoli, si muovono e operano in strutture complesse, in modo da migliorare la personale autostima e autoefficacia, la consapevolezza di sé, quindi la disponibilità alla comprensione e alla collaborazione; sia per le associazioni e istituzioni in quanto tali, in modo da rinnovare il saper stare, operare e lavorare insieme, attraverso l'autoanalisi collettiva dei climi di convivenza, con tutto il portato di affetti, emozioni, tensioni, solidarietà, che spesso rimangono sottaciute o silenti.

La via ipotizzata è quella di ricercare, con queste metodologie, come migliorare tanto la funzionalità organizzativa e il clima di lavoro,  quanto favorire la costruzione di biografie degli ospiti, restituendo loro la piena dignità della persona, superando il concetto di anamnesi in senso esclusivamente medico-specialistico, tipico della medicina delle evidenze. «Onorare le storie dei pazienti», come ci tiene a ricordare Rita Charon, che è qualche cosa di più del semplice rispettare i loro diritti.

Per raggiungere queste finalità, secondo l'approccio autobiografico così come è stato elaborato dalla LUA di Anaghiari e dal suo direttore scientifico Duccio Demetrio, è necessario sempre e in ogni caso offrire ai singoli la possibilità di affrontare in modo più consapevole i grandi temi che attraversano l'esistenza di ciascuno: le proprie origini, i miti personali, le figure educative determinanti, l'amore dato e perso, il desiderio sperperato e salvato, la ricerca della felicità, il riconoscimento del proprio operare, il dolore, la perdita, la mancanza, i conflitti che inevitabilmente si innescano in situazioni problematiche a contatto con la sofferenza propria e altrui. Perché solamente nella misura in cui ognuno fa chiarezza in sé, nella propria interiorità, di che cosa lo attraversa nel lavoro di cura, è poi in grado pienamente di aprirsi all'altro, di accoglierlo con tutto il fardello di emozioni che questo comporta.

2 – Si chiedeva alcuni anni fa Julia Kristeva: cosa vuol dire soffrire? Noi possiamo dare un sollievo alla sofferenza individuale? La cura attraverso la parola ha un senso, una sua incisività? E come? E per quali complesse ragioni? Scrive: «I pazienti vengono a consultarmi per confidarmi sofferenze incommensurabili, prima di rendersi conto che non è possibile eliminare la sofferenza alla radice, ma che la si può attraversare all’infinito: cominciando nuovi legami, linguaggi, creatività, un altro rapporto col tempo – una sorta di rinascita, di serenità, di gioia… Tuttavia, non possiedo una definizione globale di sofferenza. Di quale sofferenza stiamo parlando? Di quella dell’innamorato o dell’innamorata? Di quella del disoccupato? Del malato? Dell’handicappato? Della donna? Dello straniero? Del moribondo? Ognuna è incommensurabile e solo una parola individuale, spero quella dell’analista, a volte quella dell’arte, riesce ad accostarsi alle loro verità».

Julia Kristeva si chiedeva anche: la psicoanalisi può spiegare la sofferenza? Rispondeva: «La psicoanalisi non spiega e non giudica nulla, si accontenta di trasformare. Sì, succede, di rado, ma succede. Quest’alchimia presuppone che mi associ alla sofferenza dell’altro, che mi proietti in lui e che contemporaneamente me ne dissoci per interpretare il suo malessere diverso dal mio...  che gli permetterà di ricominciare da capo”. E aggiungeva come non credente, ma profonda studiosa di quello che lei chiama “il genio del Cristianesimo”, che tra psicoanalisi e cristianesimo esistono profonde differenze, ma ci sono due punti in comune: «Il riconoscimento della sofferenza come parte integrante dell’essere dotato di parola e la valorizzazione della lingua quale strada maestra per attraversarla, per trarne sollievo… Né la sofferenza né il piacere possono dirsi direttamente e totalmente: possono esprimersi solo con la trasposizione, lo spostamento, l’ellissi o la condensazione, nella carne delle parole, dei suoni, delle immagini».

La studiosa indicava le strade per arginare la sofferenza attraverso la parola. Certo, le sofferenze sono molte, vissute in soggettiva, da comprendere una ad una nella loro peculiarità; non è possibile eliminarle, ma si può contenerle; per farlo si tratta di trasformale, riconoscendole come parte costitutiva dell'essere umano, trasponendole in altri linguaggi, spostando il loro centro, ampliando il loro orizzonte, facendo ciò che Freud chiamava “elaborazione”: un'operazione intrapsichica capace di trasformare una condizione di disagio, anche profonda, fino a formare collegamenti, associazioni con altri contenuti consci, con una nuova storia più accettabile. Operazione tanto più efficace, aggiungiamo noi, nella misura in cui le parole si fissano sulla carta trasformandosi in racconto scritto, in testo autobiografico.

3 – Sentiamo, come esempio, il testo di una madre con il figlio affetto da disturbi psichici, nel suo dramma di dividersi tra cura del figlio e cura di sé come diritto sentito e sofferto:

A chi può interessare una storia così? La storia di un ragazzo dolce e mite, che diventa aggressivo, e non solo con sua madre. Che passa le giornate ad ordinare le sue cose e a dare ordini: portami questo, fa quest’altro, ecc. ecc. Che riesce a scandire i ritmi di vita a proprio comodo, costringendomi a credere che questa sia la regola, che il mio ruolo sia quello di riempire un frigorifero e ricordare di acquistare i suoi farmaci. Facendomi credere che sono una madre incapace, che aspetta di fare una sera di Natale con il proprio figlio (trascurando il proprio compagno di vita, parenti ed amici) per poi restare sola davanti alla TV, a guardare la finestra di fronte, chiusa, a vegliare sul sonno di un ragazzo che ha cancellato dal calendario le festività… Quanti anni ho passato così? Ritagliando la mia felicità, sempre con i sensi di colpa, come se stessi derubandolo… quanti anni, alternando la sua malattia, a quella dei miei genitori? Passando il mese di agosto da un reparto all’altro dell’ospedale (tra madre e figlio malati) E TROVANDO ANCHE IL TEMPO, PER RICORDARMI CHE HO ANCH’IO DIRITTO ALLA VITA. Quante volte mi sono sentita una ladra, perché stavo rubando uno scampolo di PURO EGOISMO. Una boccata d’aria nell’apnea della mia vita… Mi piacerebbe pensare che è stato tutto un bruttissimo sogno, scaturito da una mia allucinazione, ed al risveglio scoprire che mio figlio ha 16 anni e sta andando sul windsurf, mentre questa sua madre incosciente lo sgrida, perché deve prima studiare per terminare l’anno scolastico… Un bel colpo di spugna… Oppure questo ragazzo, molto più semplicemente, riesce a trovare un po’ di amore e serenità, con una giovane donna, affetta dal suo stesso disturbo, in modo che possano aiutarsi a vicenda, lasciando in pace la vecchia mamma… Oppure mio figlio che spicca il volo e si libra nell’aria con dei Superpoteri, magari cammina sull’acqua e sulle braci, poiché i MATTI sono in grado di fare delle cose davvero Super…

Proviamo a sentire, oltre questa voce adulta, anche quella di due giovani, giunte alle soglie dell’adolescenza, che ci consegnano testi così lontani dall’immagine stereotipata di ragazze e ragazzi superficiali e anaffettivi diffusa troppo spesso dai media.

L'incanto di essere bambina, il cervello pieno di saette, una donna, nuova, mai vista prima, mio padre, un viso conosciuto in quel momento. La prima notte, la seconda e poi 11 anni. Smarrita nel 2010, fumo e alcol che girano per casa. Mio padre ad una partita; una notte infinita. Vuoi, voglio, sì, no. Nei miei polmoni un terribile sentimento di tristezza allentata da odore di tabacco, micidiale, due colpi di tosse, un obbligo. Scarpe, non normali, scintillanti, spigolose, borchie sulla mia schiena rossa e macchiettata; sberle violente e interminabili. La mia vita non è stata facile. Ma ora senza più tutto questo non riesco ad incontrare pace e serenità. La vita va vista come una storia vera, come un romanzo, un romanzo a lieto fine.

Eccomi qua, una ragazza di tredici anni che ogni giorno lotta per trovare una ragione per vivere, che ogni giorno ha bisogno di un abbraccio, di un ‘ti voglio bene’ per sentirsi felice…. Ho i genitori separati e nella mia famiglia mi sento incompresa, messa da parte, come se non capissero cosa sto passando e non si sforzassero nemmeno di immaginare… Mi sento sola, abbandonata, in mezzo a gente che non pensa a me, che non sanno come io viva la mia vita tra migliaia di problemi e di sfide che non sempre riesco ad affrontare. Chiedo solo di essere ascoltata, di essere capita. Chiedo un po’ d’affetto, un abbraccio vero. Chiedo qualcuno che quando cado sia sempre pronto a rialzarmi. Prima di trovare tutto questo, credo di dover aspettare ancora o forse non arriverà mai, ma continuo a sperare ….

Come si vede i soggetti, attraverso la parola, arrivano a modificare il vissuto di un dramma, legandolo ad un contenuto emotivamente e simbolicamente accettabile e dotato di senso, inserendolo in una storia che narrano a se stessi prima che agli altri. Fino a comprendere che uno stato affettivo doloroso non è qualche cosa di solo soggettivo, o momentaneo, ma proprio della vita, della condizione umana in quanto tale, e per questo tratto, accomuna tutti e che dunque reciprocamente possiamo riconoscerci, comprenderci, sostenerci a vicenda, perché la vita continua, deve continuare, mostrare un orizzonte verso cui tendere.

4 – Le parole che salvano, e ci salvano, sono come i pozzi artesiani, in cui le acque del sottosuolo risalgono in maniera naturale alla superficie, dopo che il terreno è stato forato. Come ebbe a scrivere Ungaretti circa un secolo fa: «Quando io trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso». Così nella relazione profonda, le parole – vere, autentiche, gentili –  che rivolgiamo al mistero dell'altro, al suo dolore, alla sua disperazione, ma anche alle sue bellezze celate, aprono l'animo e consentono alla sofferenza più profonda di risalire alla luce del linguaggio, senza il quale, come diceva Shakespeare, le emozioni spezzano il cuore.

Eugenio Borgna ribadisce il Leitmotiv della sua ricerca sul rapporto tra fragilità del corpo e quelle della psiche: «non c'è altra strada nel conoscerle se non quella che ci fa guardare con l'intuizione negli abissi della nostra interiorità. Ma è doloroso: temiamo, come diceva Nietzsche, di finire divorati dagli abissi dai quali rinascono contraddizioni e antinomie della nostra anima». Le parole che assumono tali valenze salvifiche vanno inserite all'interno di orizzonti comunicativi dove si scaldano, arricchendosi di risonanze e aloni  emozionali, ponendo in contatto il visibile e l'invisibile dell'anima nostra e altrui. «Le parole hanno una superficie, e hanno una profondità, l'una visibile, e l'altra invisibile, che solo la intuizione, la conoscenza emozionale, riesce a cogliere nella loro parabola semantica. Non si sanno cogliere le parole che curano, e le parole che salvano, se non si è capaci di introspezione e di immedesimazione che consentono di conoscere di quali parole abbiano bisogno le persone, sane o malate, con le quali ci incontriamo, e che possono essere di situazione in situazione parole silenziose, o squillanti, sfumate, o esplicite, leggere, o profonde, ma che al di là di queste oscillazioni semantiche dovrebbero sempre essere gentili e umane, tenere e accoglienti».

E proseguiva: «Le parole cambiano il loro significato nella misura in cui cambiano gli stati d'animo e le emozioni con cui si crea, o non si crea, una sintonia emozionale, in particolare, con le persone che abbiano ardente bisogno di aiuto. Certo, dovremmo sempre guardarci dal dire parole che non siano state prima filtrate dal cuore che le renda capaci di divenire portatrici di speranza. Ma, ogni volta, il linguaggio delle parole si intreccia al linguaggio silenzioso del corpo vivente, dei volti e degli sguardi, del sorriso e delle lacrime, che ne sono (non dimentichiamolo mai) la scintillante espressione».

5 – Troppe volte noi ci illudiamo di entrare velocemente in sintonia con l’altro che ci sta di fronte. Approfondendo una ormai secolare tradizione fenomenologica, Laura Boella intende invece lasciarci un’immagine tutt’altro che pacificata e pacificante delle relazioni umane, relazioni intersoggettive sempre aperte, problematiche, dove l’alterità dell’altro si presenta in costante divenire e piena di rischi, aprendoci a nuove emozioni, nuove possibilità, ma anche a possibili pericolosi cammini. L’atto empatico, infatti, che si realizza attraverso il riconoscimento dell’altro in quanto soggetto di esperienza autonoma, centro di una visione della realtà diversa dalla nostra, viene vissuto sempre all’interno di scenari concreti, rapporti, contatti psicosomatici, disuguaglianze e asimmetrie di potere, non riproducibili in laboratorio, né riconducibili alla lettura di una pagina, ad un’immagine dei media o della rete.

L’empatia è assai più ambigua, fragile, rischiosa, contraddittoria di quanto anche studiosi seri sono disposti ad ammettere. Troppo facilmente filosofi, neuroscenziati, esperti dei social network hanno esaltato la possibilità di connettersi tra esseri umani, la comprensione reciproca. Non è affatto così: «L’altro è un centro di esperienza autonomo e differente rispetto al mio e come tale irrompe nella mia esperienza. L’empatia dunque è il contrario dell’identificazione o appropriazione dell’emozione o intenzione altrui. Essa consiste invece nell’ingresso nel mio orizzonte vitale, emotivo e cognitivo, di ciò che è vissuto dall’altro». Di fronte al quale posso reagire accogliendolo, respingendolo, oppure crescendo come soggetto morale, cioè assumendo su di noi la fatica di ristrutturare, complessificare, la nostra visione del mondo, in cui la presenza degli altri si pone con nuova pregnanza.

Pericolose, nei rapporti amicali, amorosi, anche di cura, affermazioni come “so quello che provi”, “sa, la capisco perfettamente”. Per ognuno di noi è impossibile, sostiene la Boella, accedere all’esperienza vissuta dell’altro: la sua vita interiore è sempre distinta, distante, peculiare, opaca. Ci si può avvicinare solo indirettamente, nel tempo. «In questione è l’avvio di una dinamica generativa in cui il tempo ha un ruolo fondamentale e l’io e l’altro compaiono come vite che divergono e s’incontrano in un punto». Un punto partendo dal quale ogni io può arricchire il proprio mondo tramite questo rapporto empatico con l’altro, creando così nuove esperienze e nuovi significati. Non va mai dimenticato che nella vita reale non si incontrano “uomini”, “donne”, “bambini” “giovani”, “adulti”, “anziani”, “sani”, “malati”, “matti”, “stranieri”, “criminali”, ma si entra in contatto «con l’altro nella sua irriducibile singolarità e unicità, contatto che ci mette di fronte a ciò che va oltre il nostro sapere e la nostra capacità di comprensione, a forme di disagio e di sofferenza che non ci sono familiari». La costruzione del “noi”, di un mondo “nostro”, è sempre un complessa, aperta al rischio e richiede una empatia criticamente fondata, in quanto «l’unico modo per “conoscere” se stessi e gli altri è impegnarci nel mondo in quanto esseri che si muovono, agiscono e patiscono nel tempo, scoprendo così significati e profili della realtà che dipendono dall’esistenza degli altri».

6 – Il problema centrale di ogni approccio che affronta la sofferenza attraverso la parola riguarda sempre il come si può dare senso al dolore e che funzione potrebbe avere la scrittura in tutto questo. Secondo Stefano Ferrari (Università di Bologna) la scrittura creativa e/o autobiografica è abreativa (consente una scarica emozionale), ripetitiva (la ripetizione di un evento attraverso la scrittura porta a una sua elaborazione psichica), correttiva (nei confronti degli aspetti più lancinanti del ricordo: favorisce l'elaborazione di situazioni di lutto). La scrittura dunque apre uno spazio, crea una distanza, consente una prospettiva, inventa uno sguardo nuovo su di sé e sul mondo.

A questa tesi si rifà anche Duccio Demetrio, che propone la cura non tanto e non solo come aiuto, supporto, sostegno caritativo a chi si trova in difficoltà, quanto come cammino emancipativo ed evolutivo, come relazione interpersonale che sollecita chi è in condizioni di difficoltà a raggiungere in ogni caso le “sue” finalità, ad esplicare le sue potenzialità, a formarsi e crescere in qualsiasi condizione di vita si trovi. E quello di scrittura come possibile riparazione, possibilità di ricucire le lacerazioni che le sofferenze e le malattie – del corpo e dello spirito – portano nel tessuto dell'esistenza personale, esprimendo emozioni, sentimenti, in maniera lenta, meditata, autentica: riavvicinandole nel richiamo memoriale, poi esprimerle ricercando la massima verità con sé stessi, per depositarle sul foglio e infine riflettere su quanto emerso, per prenderne coscienza.

L’atto della scrittura, in questa prospettiva, consente che l’insieme dei vissuti, delle emozioni, delle memorie, anche traumatiche, sia avvicinato nella rievocazione e poi distanziato sulla pagina. Qui si può decantare per una riflessione più vigile, rasserenante e riequilibrante, soprattutto quando viene donata ad un lettore, o a un gruppo, in grado di accoglierne e rispettarne la drammaticità. Il possibile valore terapeutico, di sollievo della scrittura diventa tale nel momento in cui si incontra con l’altro, che accoglie, rende sopportabile il dramma personale, restituendolo purificato dalla catarsi. Si tratta di proposte formative di sostegno (rivolte ai pazienti, ai loro famigliari, ai vari operatori della cura), in cui il conduttore invita alla stesura di diverse tipologie di scritti (brani autobiografici, tappe di storia della malattia, scritture a tema su vari aspetti del rapporto tra soggetto ed eventi cruciali della propria esistenza, ecc.), magari avvalendosi anche di linguaggi iconici: fotografie, pitture, disegni, fotonarrazioni, brani di film, musiche, oppure della riscrittura e sua trasposizione teatrale.

7 – Ma il problema che si affaccia è come trasferire queste potenzialità formative all’interno di un contesto collettivo, di una struttura complessa, di una istituzione. Pur con qualche cautela, si può sostenere che la formazione autobiografica può essere assai utile se calata in un sistema organizzativo complesso, in quanto può consentire la condivisione di  esperienze di cura vissute insieme tra collaboratori, colleghi, care giver, familiari, volontari, che operano quasi gomito a gomito, ma poi non hanno frequenti possibilità di comunicare in profondità tra di loro. In questi casi il confronto non solo di parole in scambi occasionali in una pausa o bevendo un caffè, o in riunioni solo orali, ma «con scritti relativi agli avvenimenti, agli incidenti critici, alle disfunzioni di comunicazione, vissute in prima persona, rappresenta una delle  occasioni in cui lo scrivere di sé e insieme, può essere un ottimo modo di accrescere il senso di appartenenza lavorativa e la capacità di individuare quello che non funziona. La scrittura dei problemi accentua le analisi in profondità degli eventi, costringe alla ponderazione delle idee, lascia tracce e documentazione a livello di redazione di un'autobiografia professionale e collegiale» (Demetrio 2017 a).

La scrittura nella professione e nelle attività di cura al di là dei ruoli può corroborare i legami tra i membri dell'organizzazione, li fa famigliarizzare tra loro. Può diventare una modalità di accoglienza dei nuovi colleghi, di nuove figure inserite nelle attività. Il raccontarsi anche professionalmente include il riferimento a storie personali che ben lungi dall'accentuare le distanza tra operatori e care giver nella struttura, può consolidare anche le solidarietà di gruppo, la comprensione dei rispettivi ruoli, sdrammatizzando gli incidenti comunicativi anche per il valore simbolico del raccontarsi. “Se perciò la comunicazione è attività di natura formale (trasmissione di consegne, ordini di servizio, protocolli di comportamento, ecc), quando la si reinterpreti da un punto di vista narratologico, ecco che quel che accade si muta in storia di vita, in esperienza umana, che non per questo elude questioni di correttezza procedurale. Il valore emotivo, fluido, affettivo del narrare può facilitare il formarsi e consolidarsi delle diverse forme di collaborazione” e di solidarietà anche professionali.

A differenza di altri approcci, che prevedono la guida o la presenza costante e assidua di uno specialista, tale prospettiva affida invece a ciascun narratore/narratrice il compito – svolto in prima persona, nella massima concentrazione e salvaguardia della privacy – di attingere alla propria esperienza umana in assoluta libertà e spontaneità. Affinché, nella più esplicita autodeterminazione, ognuno sia aiutato a rintracciare nella memoria le fonti, i motivi, le circostanze che gli ha permesso di diventare ciò che è, magari conversando anche con le sue ombre.

8 – Secondo i più accreditati orientamenti della medicina narrativa, «Quando i pazienti raccontano della loro malattia ai curanti, stanno cercando di esprimere qualcosa di personale, carico di significato, che li spaventa e che è legato alla morte… Il medico spesso semplifica il racconto del malato, riconducendolo alla classica sequenza anamnestica». Non è un buon segnale di comunicazione come risulta da tante testimonianze autobiografiche fissate in testi spesso assai sofferti ed efficaci (Nicolaidis, 2012; Scarponi 2017). Il paziente (il famigliare) necessita della parola clinica, ma ha anche bisogno di una parola legata alla vita e che dà spazio alle aspettative e ai desideri, ai timori, che il paziente e la sua famiglia riversano nei confronti della cura. Ciò permetterebbe di intercettare quell’area di disagi, di malesseri, che la medicina delle evidenze esclude, se si lavora sulle rappresentazioni che paziente e  famigliari hanno della malattia, entrando in contatto emotivo con loro.

Ma come trasformare in racconto biografico fedele le parole a volte smozzicate, imprecise, piene di pregiudizi, di false credenze, del paziente e dei suoi cari? E a sua volta, l'operatore della cura non porta dentro di sé stereotipi, pregiudizi, false credenze, che quasi senza accorgersene, può riversare sulla biografia dell'altro che gli sta di fronte? Una garanzia di assoluta fedeltà al racconto dell'altro non c'è mai, ma la metodologia e filosofia della cura che sto presentando nelle sue linee generali  sostiene che è necessario che ciascun biografo passi attraverso la propria storia di vita, per essere in grado di avvicinarsi all'altro, di accoglierlo, di rispettare la sua dignità senza eccessive distorsioni.

L'autobiografo può farsi biografo di chi non può o non sa scrivere la propria storia, un compito doveroso, carico di umanità, ma rispettando precisi protocolli di comportamento. Il suo compito è ascoltare la storia dell'altro, magari sollecitandola, quando è possibile, con delicatezza con domande non invasive e poi trascriverla, rispettando in ogni caso il punto di vista dell'altro, avendo sempre cura di sottoporre il testo da lui redatto ad una sua approvazione (se possibile, naturalmente). Ma può diventare un buon biografo se ha saputo attraversare fino in fondo la propria autobiografia.

Ci sono ancora margini di speranza, dunque? Scrive nel suo ultimo testo Demetrio: «La scrittura mette tra parentesi le nostre angosce peggiori. La loro verità, non pochi fantasmi. Ogni parola scritta, nella nostra lingua da sinistra verso destra, ritorna simbolicamente verso est: riaccende la voglia da Oriente di ricominciare, di non abbandonarci alla disperazione, di tornare a guardare oltre la tragedia devastante, di ricostruire speranze». Nella nostra impostazione, riteniamo che nei percorsi educativi ed emancipativi non ci si debba limitare a singoli apprendimenti, ma occorra prospettare possibilità sia esistenziali che professionali non ancora note e non ancora sperimentate, ma neppure note in modo definitivo agli stessi formatori, anche essi in cammino nel contesto dato e nelle relazioni in atto.

(Intervento parzialmente rielaborato tenuto il 6/6/2018 al convegno “Care giver 2018”, organizzato dalla Coop. “Luce sul mare” a Rimini)

 

Riferimenti bibliografici

AA. VV., Narrazione , scrittura, autobiografia in medicina, Summer School, Luglio Agosto 2015, Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, Diario delle lezioni, a cura di Giorgia Mascheroni.
Laura Boella, Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina, Milano, 2018.
Eugenio Borgna,  Le parole che ci salvano, Einaudi, Torino, 2017.
Micaela Castiglioni (a cura di), Narrazione e cura, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2014.
Rita Charon, Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti, Raffaello Cortina, Milano, 2019.
Duccio Demetrio (a), Dalla narrazione alla scrittura, pp.7-21, in C. Benelli, A. M. Pedretti, La formazione autobiografica di gruppo, Unicopli, Milano, 2017.
Duccio Demetrio (b), La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Mimesis, Sesto S. Giovanni, 2017.
Julia Kristeva,  Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Donzelli, 2006.
Rita Nicolaidis, Vola colomba, aringhe affumicate, farfalle, Ladolfi, 2012
Mara Scarponi, Princesa maldida, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2017.


* Pedagogista ed esperto in autobiografia, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 

 

 

 

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